R. Ferrario - Alcune riflessioni sulla ricerca di Mirella Saluzzo e sull’opera Fuori Asse

Marzo 2017

Lo studio è il luogo in cui immaginare e reinventare. La campagna intorno alla città di Ravenna lascia intuire che in fondo all’orizzonte inizia la linea del mare anche se l’Adriatico non si vede; insieme – studio e paesaggio – hanno contribuito a creare nella ricerca di Mirella Saluzzo una forma di espressione non solo artistica ma linguistica e culturale. Il moto infinito del mare non si vede e nelle opere non è evocato; eppure nelle nuove sculture di Mirella Saluzzo il movimento fluisce simile a quello delle onde. L’abilità e il talento non dipendono dai dati biografici, ma i luoghi e i paesaggi formano i nostri codici linguistici. Mirella Saluzzo è nata e si è formata in un “altro mare”, quello della costa ligure di ponente. Il suo genius loci (quello che le ha lasciato l’impronta più forte) viene da Albisola e dal grande passato dei forni per la ceramica: da Arturo Martini (a Vado Ligure) e poi da Lucio Fontana ad Asger Jorn, da Karel Appel a Wilfredo Lam e a Emilio Scanavino. Il ricordo delle loro sperimentazioni e dei loro interventi (anche nell’architettura) nel forno di Tullio Mazzotti restano per molto tempo nei racconti e nella tradizione del lungomare di Albisola:  una manciata di chilometri in cui gli artisti  della rivoluzione informale reinventano un linguaggio inedito per una materia tanto antica e preziosa. 

Il moto ondoso del mare assomiglia a un respiro profondo e a questo allude Mirella Saluzzo nella sua grande scultura Fuori asse, al centro di questa mostra; o in Scirocco per citarne un’altra che il mare lo porta nel nome di un vento. La terra cotta le ha insegnato il segreto e l’alchimia dei materiali e la poesia dei titoli.

Albisola, Genova, Milano, la città più amata; e Ravenna, la città dove vive e dove Mirella da pittore (allieva di Luigi Veronesi a Brera nella seconda metà degli anni Settanta) s’è scoperta scultore. “I miei occhi portano con sé il colore del Mediterraneo”, dice.  Il suo studio – come nella tradizione femminile – è a metà tra la stiva di una nave che contiene un tesoro e un luogo in cui le opere concluse, i bozzetti, le carte aspettano prima di salpare e di trasformarsi o arrotolarsi in qualcos’altro (rolling up). Colpiscono gli attrezzi da lavoro: pinze, bulino, un trapano/roditrice con punte speciali per graffiare e incidere le superfici di metallo, sacchi di terra rossastra (la stessa che si usa per i campi da tennis), e interi sacchetti da cui spuntano fogli avvolti come riccioli, leggeri, eleganti, pinzati, messi in sequenza, osservati e studiati e poi lì abbandonati (anche loro in attesa di ridiventare qualcosa d’altro o di essere distrutti). 

Prima di Mirella Saluzzo la scultrice Regina, in barba ai compagni futuristi e a un marito pittore di ritratti tradizionali, s’era isolata in uno spazio tutto suo tra le pareti domestiche dove tagliare il metallo delle sue maschere piatte e conservare le gabbiette per i suoi uccellini, di cui studiava il cinguettio. E Marisa Merz cominciò a creare le sue sculture in alluminio pinzato o a lavorare il rame con grossi aghi da calza in cucina. Anche al di là dell’oceano le donne scultori sono state a lungo costrette a lavorare fisicamente “in un angolo” (a dispetto dei loro lavori spesso imponenti). Ancora negli anni Settanta in piena rivoluzione femminista Lucy Lippard girava per gli atelier e trovava le donne negli studi dei loro mariti artisti o nelle stanze dei bambini.  Mirella Saluzzo e molte donne scultori hanno oggi stanze tutte per loro, archivi, assistenti senza rinunciare alla ricchezza di una necessità ormai antica: l’attitudine a trasformare lo spazio in cui progettano in un luogo nascosto e segreto che si ritrova poi nel processo di realizzazione delle loro opere (oltre a Mirella Saluzzo penso a Gabriella Benedini e a Anna Maria Maiolino personalità diverse  per molte ragioni ma accomunate da grande forza espressive e individuale).

Fuori Asse, alluminio e tracce di colore, piani inclinati senza un baricentro, equilibrio precario tenuto in vita dal movimento rotatorio. È una specie di “follia”. Si ha la sensazione che con la tensione di uno scatto la scultura si muoverà improvvisamente per balzare e sfuggire nell’atmosfera.
Più verosimilmente Fuori Asse è la rappresentazione astratta di una trachea: “Ho sempre bisogno d’aria – dice Mirella Saluzzo - anche la scultura ha bisogno di respiro e di dialogo con lo spazio in cui ruota in movimento perpetuo. Deve accogliere e restituire, deve essere un connettore, un ricircolo dell’idea di libertà, di rottura dei preconcetti e dei legami”.

Nelle opere degli ultimi anni Mirella Saluzzo non teme più il confronto con la tradizione minimalista (e prima ancora con la lezione di Moholy Nagy e Gabo) che ha condizionato tanta parte della scultura italiana. L’influsso e il fascino di Richard Serra, l’esperienza di David Smith (a Genova negli anni Sessanta), alcune installazione di Mark di Suvero hanno dialogato in lei con gli insegnamenti del grande sperimentatore astratto Veronesi e con l’ambiente degli artisti intorno all’Accademia di Brera.
Oggi le sue opere si sono “raffreddate”, il suo stile ha sintetizzato le forme senza perdere l’elan vital che era in Mokele Mbembe 2 (1985) (titolo esotico, che riporta a viaggi e a tradizioni lontane) che ricompare in Fuori Asse e negli altri piccoli giochi di equilibrio. Qui colore e luce hanno un ruolo da protagonisti e come in un racconto la visione d’insieme è data dai particolari: un tocco di blu, una piccola rete argentata. Siamo affascinati dal moto avvolgente di piani su cui Mirella scrive la sua ossessione del movimento graffiando le superfici con piccole spazzole meccaniche che enfatizzano i giochi dello sguardo e la cui maestria leggera ricorda quella degli antichi incisori di metalli.  La sua ricerca ruota ora attorno a un campo magnetico in cui – grazie alla contrapposizione di materiali - si forma una storia. Il tempo, solo in apparenza sospeso, è il risultato di una serie di momenti e di realtà, è il racconto circolare che parte dalla tradizione antica della ceramica e del metallo e sfocia nell’attrazione degli artisti per il moto terrestre della natura.

La dimensione allo stesso tempo monumentale e anti-monumentale colloca la ricerca di Mirella Saluzzo e quella di altre artiste italiane (penso alle ultime installazioni di Nanda Vigo) nell’ambito di un contesto che viene dalla generazione che ha come protagoniste all’estero le reti sospese di Ruth Asawa, le composizioni di Lee Bontecou o le strutture di Louise Nevelson e in Italia la ricerca di materiali e poetiche diverse di Carol Rama e Marisa Merz. Lo scorso anno a Los Angeles la galleria Hauser&Wirth ha organizzato una mostra di scultura al femminile con opere molto significative e “belle” delle principali protagoniste della scultura internazionale. La mostra e il libro che l’accompagnava sono nati dalla particolare atmosfera di immaginazione e reinvenzione che la città di Los Angeles e l’atmosfera del suo paesaggio ha ispirato sin dalla fine degli anni Ottanta a Ursula Hauser (ha dedicato la sua collezione alle voci delle donne nell’arte contemporanea).
Concludo con una riflessione. Grazie a opere come quelle di Mirella Saluzzo forse anche la tradizione italiana delle generazioni più giovani può trovare un dialogo proficuo con la dimensione della ricerca – oramai mutata nei materiali e nella consistenza del codice scultura –delle più giovani Liz Larner e Jessica Stockholder.