Biografia

Mirella Saluzzo nasce ad Alassio, in Liguria, nel 1943.

Dopo gli studi superiori si iscrive all'Accademia di Brera, dove entra in contatto con i protagonisti della scena artistica milanese, in particolare con Luigi Veronesi, del quale segue con passione il corso di Cromatologia, e Guido Ballo. Tra i suoi insegnanti figura anche Luciano Caramel che più di ogni altro seguirà con costanza le tappe del suo percorso artistico.

Dopo aver conseguito il diploma in Pittura nel 1979/80 con una tesi su “I mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna”, Mirella Saluzzo inizia la sua attività di artista, dividendo i suoi interessi tra pittura e ceramica. La diversità di materiali trova in un uso libero e spregiudicato del colore venato di un sentimentalismo lieve, il suo trait d'union. Il dinamico rincorrersi di forme irregolari, ora fluide ora spigolose, crea superfici mosse che si accavallano intrecciandosi prima, scomponendosi poi, in un turbinio cromatico di ascendenza lirica.

La prima mostra personale è del 1983 alla Galleria Il Patio di Ravenna, con presentazione in catalogo di Luciano Caramel che coglie nella pennellata dai tratti rapidi e sfumati, il “fiabesco variare di forme”, il “cangiante metamorfismo” e il “caleidoscopico succedersi di immagini”.  Punto di riferimento sono le ricerche d'inizio secolo portate avanti da un manipolo di artisti visionari appartenenti ai movimenti d'avanguardia, quali la Brücke, il Blaue Reiter, ma anche il fauvismo e il divisionismo, mischiati agli ultimi strascichi del clima informale con il quale tutti gli artisti del dopoguerra hanno dovuto, in un modo o nell'altro, confrontarsi. Da queste suggestioni deriva un tratto narrativo nella sostanza, anche se garbatamente astratto. Sogno e realtà si fondono per dare corpo a storie fuori dal tempo, che raccontano di un mondo mitico rivissuto tramite le ancestrali e leggendarie memorie tramandate dalla tradizione orale.

La visione d'insieme delle opere dei primi anni Ottanta, complessivamente unitaria, nasconde una frammentazione interna dal marcato potere distruttivo. Molto più esibita nelle composizioni pittoriche, formate dall'accostamento di più tele di differente formato, più strisciante e in fondo più dirompente nelle ceramiche che celano la contraddizione interna, ancora latente, con un trattamento della materia morbido e sensuale ed una accesa policromia. Ne è un chiaro esempio Mokele Mbembe (1985), fulcro della seconda personale di Mirella Saluzzo allo Spazio G di Ravenna (1986), con le sue delicate lingue protese verso l'alto, percorse da profonde lacerazioni che vanno ad intaccare, ancora senza attraversarlo, il nucleo della materia.

Un lento processo di spoliazione e di sintesi la porta, verso la fine degli anni Ottanta, a privilegiare sempre più la ricerca plastica servendosi di un materiale per lei nuovo, l'alluminio in lastre, e riducendo i colori utilizzati ad un austero monocromo presentato nelle sue sfumature base. Crescono le dimensioni ed aumenta il gioco di costruzione basato sull'assemblaggio di più pezzi, che genera strutture multiforme, in continua mutazione al variare del punto di vista (Al volo incline, 1988), con un uso insistito della diagonale e del taglio.

La bidimensionalità dell'opera è solo in parte mascherata dall'introduzione di tronchi d'albero che portano Elena Pontiggia a parlare di mondo vegetale e celeste, di natura intuitiva, in cui “l'oggetto è solo evocato” e dove “più importante della realtà è il sogno della realtà”. E' il 1989 e Mirella Saluzzo presenta queste sue nuove ricerche alla Galleria Il Patio di Ravenna.

Procede in parallelo il suo lavoro pittorico che, però, risulta sempre più contaminato dall'esperienza scultorea: bacchette e fasci d'alluminio compaiono a rilievo sulla tela dando l'idea della mutazione stilistica in corso. Il quadro non è più la tavola dell'esercizio segnico e cromatico, ma è una struttura plastica da parete, polimaterica, uniformata nella percezione ottica dalla stesura del pigmento che ricopre indistintamente i diversi supporti.

Il 1991 e più ancora il 1992 vedono un ulteriore passo avanti nella ricerca della scultrice. La linea del taglio si chiude portando ad inglobare porzioni di vuoto all'interno dell'opera (Volo legato, 1991) fino al completo abbandono degli elementi naturalistici, per una serie di sculture classificate genericamente Senza titolo, in cui equilibri precari sono inscenati grazie alle piegature di una lamina d'alluminio, che occupa uno spazio fisico allusivamente tridimensionale.

Le sculture diventano spartiti su cui Mirella Saluzzo può esercitare le sue innumerevoli composizioni di note. Il rigore costruttivo elimina via via le sbavature, le leziosità, per dare corpo ad un ritmo interno che cadenza le variazioni.

Le scelte cromatiche sono ridotte all'essenziale: uno due tre tinte a seconda della struttura, della profondità del corpo e dell'azione della luce.

A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, all'insistita verticalità si affiancano anche costruzioni che da terra si espandono in orizzontale cominciando a suggerire quell'idea di gradino che poi troverà piena rispondenza nelle successive Scale. Gli spigoli vivi suggeriscono spinte verso l'esterno e poi di nuovo verso l'interno, in un dinamico alternarsi di piani. La serie Isole ha una vera e propria struttura architettonica modulata sulla lavorazione di superficie del materiale che, pur essendo monocromo, si presenta in un'ampia gamma di grigi, luminosi e plumbei insieme, con l'introduzione di un nuovo codice espressivo, l'arabesco, che incide il supporto quasi si trattasse di un carattere grafico.

Del 2004 sono le prime Scale, che riassumono le ricerche stilistiche degli ultimi due decenni e che Mirella Saluzzo propone l'anno successivo alla XIV Quadriennale di Roma con Uscita di insicurezza. Si tratta di strutture in grado di integrarsi con gli edifici con i quali condividono lo spazio. I titoli scelti, evocativi e intimistici, confermano ancora una volta quella leggerezza poetica mai abbandonata e che volutamente entra in contrasto con le sensazioni algide suggerite dal materiale e dalle forme velatamente aspre e disarmoniche. Il rapporto con la rifrazione atmosferica da una parte e con la densa immaterialità del vuoto dall'altra, esige una complessa gestione della forma e del controllo della frammentazione dei segmenti. Controllo che, paradossalmente, gioca proprio sulla distorsione e sul disequilibrio per la perfezione della veduta d’insieme. Evasioni, Raccoglitore di suoni ne sono un esempio. La piegatura, il taglio che racchiude il vuoto, la forma geometrica irregolare, il segno grafico, il colore sono i tratti distintivi dei primi anni duemila.

 

La produzione che contraddistingue il nuovo decennio è all’insegna della metafora del mare e del vento. Ciò che colpisce, osserva Patrizia Serra, è la “fluidità del muoversi delle curve, colme di vuoto denso come un liquido, che quasi ne condiziona i volumi”. I titoli riflettono questa ricerca ricordando il moto ondoso, la mutevolezza dell’acqua e dell’aria, le brezze. Le masse plastiche sono percorse da profonde fenditure che tagliano i piani verticalmente (Into the wave, Respiri) oppure orizzontalmente (Scirocco avvolgente, Colpo di vento. rischio caduta) consentendo spiragli di luce tra un lato e l’altro del corpo scultoreo. Il vuoto platealmente dichiarato di pochi anni prima è riassorbito all’interno dei corpi. Non rinchiuso, ma solo parzialmente celato. Più intuibile che visibile.

Lo strato esterno è finemente inciso, graffiato, quasi torturato da piccoli segni. Una pelle che sembra trattenere i suoni captati, e rilasciarli lentamente quasi fossero un sommesso mormorio, un accavallarsi di voci e parole portate da lontano, rendendo gli intricati grovigli di ombre cangianti molto sonori.

Claudio Cerritelli nota che “Il rapporto tra colore e forma plastica cresce e s’inonda di luminosi riverberi e cadenzate movenze spaziali”, ed è tramite privilegiato “per sviluppare connessioni tra pittura e scultura attraverso continue analogie tra l’arte e lo scorrere della vita, stato d’incertezza, situazione di precario equilibrio, movimento pluridirezionale della forma che si innalza e s’avvolge”.

Le occasioni espositive, in spazi pubblici e gallerie private, favoriscono un raffronto diretto tra le soluzioni sperimentate nelle strutture in alluminio e i rilievi cartacei. Mirella Saluzzo nell’uno e nell’altro caso, non rinuncia all’idea di transitorietà suggerita da assemblaggi apparentemente instabili, ai limiti delle leggi della fisica. Increspature, squarci, estroflessioni si insinuano rompendo i piani in scie morbide o frammentate. Onda anomala (2011) prima, Percorsi (2014) in un secondo momento, affiancano i loro corrispettivi in metallo legati all’acqua e all’aria, dandone una visione più lieve, più sussurrata, ma proprio per questo, forse, ancora più sintetica.

Dal 2013, la scultura Into the wave è in collocazione permanente alla sede dell’Autorità Portuale di Ravenna.

Anna Comino, 2014