G. Guberti - Digressioni per un’installazione di Mirella Saluzzo, (dal volume di L. Caramel M.S. Sculture 1989-2003 Ed. Essegi Ravenna) - 2003

Digressioni per un’installazione di Mirella Saluzzo

di Giulio Guberti

Pubblicato nel volume di L. Caramel “Mirella Saluzzo Sculture 1989 - 2003” Ed. Essegi - RA



(È’ una calda sera di luglio Ravenna 1999. Davanti alla libreria Amblar c‘è il Mausoleo di Galla Placidia. Nel cortile della libreria è esposta un’installazione di Mirella Saluzzo: due “superfici” di alluminio in parte abrase e, in minor misura, dipinte che l’illuminazione fa trasalire in incanti di riflessi e di ombre. Siamo al limite tra installazione, scultura e pittura: le superfici appena mosse e “arabescate” d’argento sembrano scivolare l’una sull’altra. Un’opera di sofisticata raffinatezza. A casa butto giù degli appunti, l‘intenzione è quella di “rimetterci le mani “. Alla fine preferisco lasciarli come sono e farne dono a Mirella.)


Passando davanti all’opera volutamente bidimensionale e frontale (un’eredità da Consagra?) di Mirella Saluzzo mi è venuto in mente che si potrebbe riproporre, mutatis mutandis, il dilemma che ha attraversato la critica a proposito di certa musica contemporanea, come alcune composizioni di Cage ed altri autori: se trattarsi di musica atonale o politonale. Qui il dilemma dovrebbe consistere nella domanda: trattasi di arte senza significato o con significati irrimediabilmente plurali? Bisognerebbe vedere se tra i due termini ci sia contrasto o, in ogni caso, differenza, oppure se, in certo qual modo, siano sinonimi. Se inseriamo entrambi in un contesto di ambiguità è più facile propendere per la seconda possibilità. E l’opera, in questo caso quella di Mirella, che si presta ad essere inquisita. Direi un’opera “post” (postastratta, postinformale, postminimalista, postqualcos’altro), anche se, a prima vista, può sembrare appartenere a quell’ ”aria di famiglia” (Benjamin) che oggi potremmo chiamare modernista. Qui è attenuato l’uso espressivo della struttura di tipo perimetrale (cm 80x 200), è attenuata l’adozione di una geometria sia pure conflittuale nei movimenti tridimensionali, manca un progetto o un disegno preparatore, manca la volontà di significare (la niciana volontà di potenza?). E tuttavia queste “mancanze” non sono da considerare come accezioni negative, tutt’altro. Appartengono a quello scavo continuo di riduzione che l’artista contemporaneo (e Mirella sente la contemporaneità più che come un valore, come una necessità) compie per arrivare alla radice, all’origine dell’arte, alla traccia (all’architraccia) che l’uomo ai primordi incise sulla roccia per lasciare un segno del proprio passaggio. E incredibile come tutte le avanguardie artistiche dell’otto-novecento abbiano cercato di aprire un varco verso il futuro e nello stesso tempo abbiano “rivisitato” il passato fino alle estreme propaggini, ai confini dell’ animalità.


Esiste una "tradizione italiana” delle “superfici”, a partire dalla metà degli anni cinquanta, all’ “uscita” dall’informale. La tela (e in seguito il metallo o la plastica) non più o non solo usata come supporto della pittura, ma come costruzione tridimensionale sia che si tratti di “ferite” che di “tensioni” e di “aleatorietà” varie (Fontana, Burri, Scarpitta, Manzoni, Bemporad, Castellani, Bonalumi, Gio’ Pomodoro, Lo Savio, Pascali, Scheggi, Bendini, Aricò, eccetera). Forse può essere ancora un buon contesto anche se non totalizzante. Mirella Saluzzo, in queste “superfici” (più che in altre opere dove prevalgono le geometrie o le forme a spirale) mostra aver assorbito alcuni aspetti della poetica informale: il rispetto della “materia”, l’assenza di “modello”, il “gesto” e cioè la rilevanza dei meccanismi inconsci nel farsi dell’opera, il gioco linguistico (o la metafora epistemologica?) tra caso e necessità. E tuttavia la partenza è una forma primaria, due rettangoli di alluminio le cui dimensioni sono “volute” (e nell’opera in questione esplicitate), il gesto scultoreo perde la violenza dell’informale “caldo”, diventa carezzevole e starei per dire femminile, il segno, abbandonato il di-segno, si addolcisce nella continuità della superficie. Le contaminazioni (il post di cui si è detto) sono all’insegna della leggerezza e sembrerebbero nascondersi perché l’amalgama è ben riuscita. Del resto non ci sono (state) forme “pure”. Inoltre l’abbinamento di due superfici permette una varietà di posizionamenti per cui, ogni volta, l’opera può presentarsi diversa, e dunque plurale. Un’ invidiabile semplicità per un’installazione...