G. Berti - Catalogo Un colore, oltre il confine, per Jelmoni Piacenza, Alphacentauri Parma-1993

UN COLORE, OLTRE IL CONFINE

di Giuseppe Berti


Catalogo mostra Mirella Saluzzo

STUDIO JELMONI – PIACENZA (9 ottobre 1993)

ALPHACENTAURI – PARMA (26 novembre 1993)



Ammettiamo pure - facendo nostre per un momento le tesi di alcuni critici illustri - che la soglia storica della pittura sia stata raggiunta da ormai molto tempo sebbene gli Anni Ottanta, in virtù di una pratica citazionista e neoaccademica, si siano illusi di configurare per l’arte un futuro che, invece, si è rivelato come un ostinato maquillage a un mondo già tramontato. Ammettiamo dunque che tutto questo sia vero, in ogni caso si dovrà con-venire che, all’interno di questo «grado zero» raggiunto oggi da pittura e scultura, ancora esistono alcune sia pur ridotte possibilità espressive attraverso cui dare libero corso a una qualche novità di linguaggio; si dovrà cioè convenire, secondo quanto sosteneva Argan, che, nonostante tutto, nonostante l’ultima soglia raggiunta, «ci sono dei problemi che trovano la loro soluzione, l’unica forse ancora possibile, nella dimensione tempo-spazio-colore del quadro». Ebbene, non vi è dubbio che entro questa dimensione si trovi ad operare con decisa consapevolezza Mirella Saluzzo, artista che con il colore ha intrattenuto a lungo corrispondenze di fervida e intensa passione.

Non che queste corrispondenze rappresentino già un’esperienza conclusa, Mirella non è infatti donna da tradire facilmente sé stessa, ma è come se tale rapporto avesse ora trovato un suo meno rapinoso percorso, lontano, ecco, dalle febbrili accensioni di un tempo, dalla visionaria «ossessione» di chi declinava i ritmi delle passate Avanguardie (Espressionismo, Fauvismo e Informale) sugli spartiti di una inesausta, fantastica, ansiosa talora, emozione narrativa.

Era un tempo, quello, gremito di incandescenti avventure cromatiche in cui Mirella bruciava prospettive e distanze lasciandosi avvolgere, tra liriche effusioni e stupori, dalla montante e ubiqua marea del colore che s’addensava, talvolta, in lampi corruschi, in sensuali opulenze, in rigogliose fioriture di serra.

Si dipanava così sulla tela o fuori di essa - sugli oggetti/scultura in cui la terracotta riverberava riflessi dei «ceramisti» Leoncillo e Fontana - una forte, vitale fisicità del colore a cui il segno offriva, poi, il suo destino di forma sognante e mai stabilmente conclusa: vette, draghi, foreste, voragini, panorami dell’anima, viaggi iniziatici, la fuga e il ritorno...

Già, Il ritorno, quasi che l’artista abbia provato, alla fine, un qualche sgomento per quella troppo intensa passione senza misura: quasi che, magari un attimo prima di annullarsi del tutto in questa liaison, Mirella abbia avuto coscienza di quanto il colore potesse, come l’acqua del Lete, portare all’oblio di ogni altra memoria, lo spazio, ad esempio, le strutture, l’ambiente, e il calibrato rapporto tra questi valori.

Non è certo il caso di scomodare, a questo proposito, la cartesiana, rigorosa lezione di Veronesi, che fu maestro di Mirella al tempo dell’Accademia; ma forse un’eco, attutita fin che si vuole, di quell’ascetica fede razionalista dove il disordine era bandito si sarà pur fatta sentire nella giovane artista, se non altro per suggerirle filtrate memorie di umbratili contrappunti spaziali ove poter contenere, appunto, i fuochi d’artificio, gli accesi falò dei colori.

Fu così, infatti: la materia cromatica e il segno trovarono modo di impaginare i propri racconti entro i più saldi confini di una superficie dalle calibrate misure: accadde cioè che la tela, combinandosi assieme ad altre nella forma scandita del dittico - o del trittico -, divenisse struttura, ordine compositiva, istituisse insomma un rapporto diretto, sia pure virtuale, sia pure incurante delle tre dimensioni, con lo spazio e l’ambiente.

Cominciò poi il colore a placarsi via via su più sfumati registri, a vibrare spesso di un unico tono come la solitaria nota di un diapason, a divenire dilatato supporto di rade tracce sinuose, di esili fili d’ombra, di guizzi nervosi talora, e di tagli, quasi l’artista si compiacesse, per un attimo almeno, di un crudele ricamo di bisturi. Mai, tuttavia, questa superficie/colore registra la prigionia di una forma, che i fasci di linee, sia pur trattenuti, liberano traiettorie sottili, di lucida e mossa eleganza: basterà infatti che dalla sensibile superficie del quadro affiorino, in vibratile intimità con lo spazio di questo, cedevoli nervature di metallo, steli di alluminio che scattano in alto verso il limite estremo del quadro. E’ infatti la verticalità a sedurre ora l’artista, è l’energia e la mancanza di peso, da sempre associate a tale concetto, a spingere Mirella a sondare nuove possibilità dello spazio piegando il segno e il colore ad una eccitata, immateriale tensione.

Ma questa è già vicenda dell’oggi, questo è il presente di Mirella Saluzzo con cui ciascuno di noi può confrontarsi guardando, in Mostra, le opere esposte.

Mancano qui, è vero, le sculture, totem inquietanti che assemblano materiali diversi (l’alluminio, il legno, il pigmento pittorico) in una tesa dialettica tra inorganico e organico, tra il vuoto ed il pieno, tra la rigida frontalità del metallo - percorso da fenditure, da secche fratture come tettonici piani di faglia - e la sinuosità, la rotonda profondità del tronco di legno che il metallo ingloba ed assorbe, e nello stesso tempo respinge. Tuttavia una stessa poetica raccorda, in unità di linguaggio, le sculture ai dipinti: medesima è infatti la capacità di plasmare lo spazio e di condensarlo, con materiali diversi, all’interno di quelle due dimensioni entro cui si svolgono pittura e scultura; medesimo lo slancio verticale, generatore di sconfinamenti, di pulsazioni, di correnti dinamiche; medesima, infine, la presenza amica del colore che con sottile eleganza emulsiona lo svariare dei piani.

Certo, in queste tele qualcuno potrebbe anche leggere l’estremo residuo di una più vasta eredità d’Informale che l’artista non sembra avere del tutto esaurito, ma questa eredità, ammesso che ancora sia tale, distilla in Mirella emozioni lontane dai furori materici, dal denso grondare di paste cromatiche che segnarono di così forti stigmate quella ormai esaurita stagione. In queste sue opere, infatti, i colori, attingono ad una tavolozza di sfumati monocromi irrorati da delicate variazioni di spettro; sono tracce leggere nate da brevi gesti che increspano la superficie di fitte ma tenere tramature tonali a cui partecipa anche il metallo con la discreta presenza di filamenti, di steli, di segmenti sottili «ridotti» essi pure a colore in un gioco di ombre e timbri soffusi, di dissonanze fuggevoli, di acute impennate. L’opera diventa così un vasto campo di ritmi e di eventi spaziali, di mobili pennellate e segni sospesi di cui si alimenta la tela per sciogliersi in una fluida energia, in riflessi di luce, in spazi (di cui la tela è solo una parte), per sciogliersi, infine, in ambiente/colore ove i confini sono solo virtuali. E dove appunto il colore, la cui fisicità si è andata attenuando in più rarefatte, dilatate stesure, diventa strumento di sorvegliata disciplina formale per scandagliare orizzonti che il quadro, da solo, non può contenere.