Conversazione tra Pietro Bellasi e Mirella Saluzzo - Dentro e fuori la materia

P.B.-  Mirella, per iniziare, vorrei farti parte di alcune ricerche che sto facendo sulla materia; ovvero, quanto la materia ha significato, praticamente dall’inizio del secolo scorso, per gli artisti.

Perché dall’inizio del secolo scorso? Perché all’inizio del secolo scorso appaiono nuovi materiali industriali, in seguito usati anche nell’industria bellica, che si diffondono fino nella quotidianità. E’ una specie di tsunami, di tempesta terribile, quasi un meteorite che si abbatte sul mondo.

In quel periodo le città si animano di tram e metropolitane e gli ambienti domestici vengono invasi da oggetti tecnico-meccanici; quindi, come dicevo, i nuovi materiali irrompono nella vita quotidiana e la penetrano capillarmente.

Tutti i metalli e poi, a poco a poco, anche i materiali sintetici, come le plastiche, comportano un DNA industriale, cioè produttivo e funzionale; e gli artisti, ovviamente, non potevano rimanere indifferenti rispetto a questa invasione di materiali che, in qualche modo “resistono”.

Gli artisti, quindi, spinti anche dalle grandi ricerche scientifico-tecnologiche che tendevano alla scoperta dei nuovi materiali ed all’aumento della loro produzione,  hanno cercato di superare la loro funzionalità e penetrarne la matericità in quanto tale, di carpirne i segreti; di ritrovare, attraverso di essi, l’essenza della produzione artistica, cioè di una produzione che, in qualche modo, è fine a sé stessa.

La materia, ovvero i materiali, divengono allora il fulcro di tutti gli interrogativi di fondo che ci si fanno sul nostro esistere, sul perché dell’esistere e, soprattutto, sul perché del dolore e della felicità.

Interrogandosi sull’essenza del cosmo, della nostra stessa esistenza di uomini, gli artisti hanno, quindi, esplorato con i materiali il piacere, il gioco, il divertimento, e così anche i grandi problemi dell’umanità, la sofferenza ed il dolore che, poi, si è sparso abbondantemente con le guerre del ventesimo secolo.

Queste riflessioni, evidentemente, vengono espresse soprattutto da chi aveva un impatto più forte ed aggressivo sulla materia; ci sono pagine intere di Gaston Bachelard sul ruolo che gli scultori hanno rispetto alla materia stessa.

Infatti, sono gli scultori, più dei pittori, che debbono provare la loro forza, anche fisicamente, sulla materia, il loro vigore creativo; anche se poi, dall’inizio del secolo, scultura e pittura si confondono sempre di più.

A questo proposito, ricordando che tu sei notoriamente più scultrice che pittrice e che, tuttavia, vieni dalla pittura e che, nelle tue sculture, rimane la pittura, sia espressa col graffito che, a volte, come campitura di colore, mi viene da chiederti: perché sei passata dalla pittura alla scultura?

M.S.-  E’ proprio vero, il mio primo amore è stato il colore; l’emozione che sa esprimere il colore mi ha sempre affascinato.

Sono originaria della Liguria ed ho convissuto con i forti colori delle ceramiche dei grandi artisti che frequentavano Albissola, dove ho vissuto per alcuni anni in età giovanile. Il colore mi ha attratto all’arte; capivo, però, che avevo anche bisogno di manipolare la materia e per questo ho iniziato anche a modellare la creta.

Al tempo, tuttavia, affascinata da maestri come Luigi Veronesi, mio insegnante all’Accademia di Brera, prediligevo la pittura; la scultura mi sembrava difficilissima, quasi un punto d’arrivo arduo da raggiungere.

Poi, sperimentando materiali diversi, sono arrivata alla necessità di rapportarmi con lo spazio. Non più la scultura intesa come piccolo oggetto in terracotta, ma creazione capace di invadere lo spazio e di mettersi in relazione con questo; capace di autodeterminarsi, quasi a dire “io sono qua, sono io che conto!” 

Il rapporto con lo spazio, quindi, è per me molto importante.

Ovviamente, continuo a portarmi dentro il retaggio di tutte le mie esperienze e, quindi, anche nel mio lavoro di scultura convivono gli elementi della pittura.

P.B.-  Certo, certo…., in fondo, oggigiorno potremmo anche parlare di smaterializzazione dell’arte; nel senso che, non tanto vengono a mancare i materiali, ma viene a mancare la riflessione ed anche il lavoro manuale sulla materia; diciamo, il lavoro “artigianale” sulla materia.

Anche quando Tinguely e Klein parlavano di “smaterializzazione”, in realtà si lavorava sulla materia, sulla riduzione della materia a pigmento, quindi, a quanto poteva resistere della materia; ma il lavoro sulla materia rimaneva fondamentale.

Pensiamo a tutto il lavoro che fa Tinguely sui materiali di recupero, che per lui sono, poi, materia da forgiare. Pensiamo allo stesso Klein, il quale lavora, direi quasi in modo paradossale, sul colore puro, proprio perché è epurato non dalla materia ma dai materiali contingenti che ancora raccontano storie, che ancora sono legati ai DNA produttivi…., però ancora si parlava di materia e si lavorava sulla materia.

Oggi, con la concettualità dell’arte e anche, tutto sommato, con l’arte povera, noi assistiamo ad una sorta di “disincanto” dalla materia.

Ora, quello che a me pare estremamente interessante nel tuo lavoro, è l’amore, direi anche l’erotismo, che pervade la materia che tratti.

Tutta la materia che tratti è in qualche modo “amorevole” perchè non tanto si racconta, ma, come dire, si palesa in quanto materia, con le sue qualità di durezza, elasticità, vibratilità, lucentezza.  In te, c’è questo erotismo della materia che mi pare assolutamente fondamentale; il che vuol dire che tu animi la materia che si dona a te con le qualità che essa contiene. Mi sbaglio?

M.S.-  Mi interessa molto questa lettura, questo aspetto dell’amore, per esempio, verso l’alluminio che io lavoro; potrei dire “accarezzo”. ll lavoro è lungo, ora frenetico, ora più pacato; è come un “corpo a corpo”; si crea un  rapporto che, alla fine, è quasi un legame.  Decidere quando è il momento di concludere l’impresa creativa non è facile.  Non è facile stabilire quando è il momento che si può dire che un lavoro è finito….

P.B.-  Scusa se ti interrompo, questo mi sorprende molto; tu stai dicendo quello che diceva Tinguely.

Sai che smise di fare pittura perché era assolutamente angosciato dal fatto di dover decidere che l’opera era finita? Lui dice che ricorre al movimento, al movimento reale, cioè a quello dei suoi motorini, perché il movimento gli dà un’alea, diciamo una giustificazione, di aver finito il suo lavoro.

In questo momento, mentre mi stavi parlando, stavo guardando alcune delle tue opere e, tra l’altro, queste bellissime “Vibrazioni”.

Tutto lo spazio vibra delle esistenze, degli oggetti che include.

Tu, di solito, utilizzi l’alluminio, materiale di per sé non molto affascinante, che ha implicazioni “casarecce”; che non riluce e che sembra quasi un metallo inerte. Non è inerte l’alluminio?

M.S.-  No, affatto! Inizialmente, mi sono avvicinata a questo materiale perché più leggero rispetto ad altri metalli; diciamo, perché mi consentiva di movimentare le opere con maggiore facilità. La sua superficie morbida, inoltre, mi permette di intervenire con levigature, abrasioni ed incisioni che una superficie più dura non mi consentirebbe. Alla fine, la mia lastra di alluminio, attraverso una lunga serie di passaggi lavorativi, diventa quasi irriconoscibile.  Diventa una nuova materia, indossa un nuovo abito; la percezione dell’originaria lastra di alluminio quasi scompare.

P.B.-  Quindi, praticamente, ritrovi nell’alluminio alcune caratteristiche che sono della pittura, dell’incisione ed anche, se vuoi, della morbidezza della creta e della ceramica.

Ecco, ti volevo chiedere di alcuni titoli che sono, a mio parere,  delle metafore  importanti.   Cominciamo dal titolo “Vibrazioni” che, in qualche modo, è il più vicino a quello che ci dice il metallo. Perché vibrazioni?

 

M.S.-  Per quello che tu hai appena detto: “lo spazio vibra delle esistenze, degli oggetti che include”.  Viviamo sempre in una situazione di instabilità, di tensione e , al tempo stesso, ci poniamo all’ascolto per ricevere informazioni e stimoli dal mondo che ci è intorno.  Siamo attraversati dalla vita; non possiamo esimerci dal ricevere e, al tempo stesso, dal dare quanto è in noi.

P.B.- Quindi, se vogliamo, si tratta di una conseguenza di questo erotismo della materia che diventa essa stessa sensibile. Ne è, appunto, un esempio questa opera che si compone di due corpi che vedo come delle “molle” che hanno intorno, e soprattutto in alto, degli elementi elastici e sensibili alle vibrazioni; come antenne che si protendono nello spazio e attendono di recepire, come sismografi, ogni movimento.

Quindi, per te, lo spazio non è uno spazio vuoto, come poteva essere per Klein, ma è uno spazio pieno di “vibrazioni” di vita….

M.S.-  …. e di respiri….

P.B.- …. “e di respiri”, esattamente.   Passiamo ad un altro titolo: “Scirocco”,  anche qui siamo in attesa di un respiro della terra.

M.S.-  Esatto.  Si tratta di un respiro, un alito caldo, che, come una coperta ci avvolge, ci trattiene, ci invita all’ascolto e ci sussurra cose.

P.B.-  Molto spesso nelle tue opere c’è un gran movimento; sono in qualche modo cinetiche, non in senso reale, ma nel senso che sono estremamente dinamiche; c’è sempre “questa ellissi”….

M.S.-  ….”questo ritorno”….

P.B.-  …. si, “questo ritorno”….; questo mi interessa molto.   In fondo, c’è una concezione del tempo come “eterno ritorno”; non ritorno “all’identico”, ma qualcosa di diverso, “più su”, rispetto allo stato iniziale….

M.S.- …. si, un ritorno con una percezione in più; una nuova conoscenza, una maggiore consapevolezza scaturita dalla curiosità, dalla voglia di superare il proprio limite….

P.B.- …. potremmo quindi dire che, in qualche modo, sono livelli di evoluzione; una evoluzione verso l’alto.

Abbiamo parlato di lavoro erotico, di erotizzazione della materia.  Da questo punto di vista mi pare che tu vada pienamente al di là di quanto l’arte contemporanea si ponga in generale.

 Io penso, ed ho sempre pensato, che un grande limite dell’arte contemporanea sia l’indifferenza.  Mi pare che molti degli artisti contemporanei siano del tutto indifferenti ai momenti dolorosi e tragici che talvolta, soprattutto ora, la vita ci propone e che, nel loro fare arte, con indifferenza emotiva, si fermino, proprio alla mera materialità della materia.

Tu non sei “indifferente” e non fai un’arte “indifferente”.

M.S.-  Ovviamente, sono il risultato di tutta la mia storia; degli anni che ho vissuto. A vent’anni pensavo che, assieme ai miei coetanei, sarei riuscita a incidere positivamente sulla società; oggi sono amareggiata per quello che succede nel mondo ed intorno a noi.

Per certo non faccio parte degli “indifferenti” e sono consapevole che la sensibilità è talvolta portatrice di “sofferenza”.

P.B.-  Certo.

La forza con la quale tu porti la tua materia a rivolgersi a sè stessa e, poi, a sfuggire al ritorno a sé stessa (e, quindi, ad un tempo “indifferente”), volgendola ad un “giro superiore”, crea come un’attesa per una “carica di energia” che si sta accumulando.

Se dovessi sintetizzare una visita ad una delle tue mostre, direi che, al tempo stesso, nelle tue opere c’è una “sensazione di attesa” ed “una sensazione di  energia” che sembra quasi, se non scattare, almeno vibrare ad ogni soffio di vento…. ad ogni respiro, come tu dicevi.

M.S.-  Si, è vero.

P.B.-  Per terminare, vorrei chiederti il senso di queste tecniche miste su carta; di questi rilievi, intrecciati in bianco e in nero, che mi hanno richiamato alla memoria un po’ i lavori suprematisti ed ancora il lavoro che Tinguely fa su Malevic. Mi riferisco ai famosi “méta-Malevic” che, disturbano il suprematismo “freddo e distaccato” di Malevic stesso con il “movimento”, che, come una burrasca estiva o invernale, tutto scompiglia. Scompiglia queste carte e, in seguito, quelle dei Dadà.

Anche nel tuo lavoro, in prima istanza, avevo visto un ricordo suprematista; invece, c’è una sorta di incastri “dentro e fuori”, quasi tentativi di tessuti;   c’è questo fatto “del bianco e del nero”, dell’intrecciarsi senza soluzione di cose, apparentemente senza ragione, solo per il piacere dell’intreccio. Cosa mi dici in proposito?

M.S.- Non pensavo al suprematismo quando ho realizzato questa serie di lavori. Per me era ed è importante questo movimento di “dentro e fuori” che diventa un segno nero che si insinua curioso attraverso le fenditure bianche e suggerisce un percorso alla scoperta di cosa si nasconde “dietro”.

Poi, certo, ho anche giocato con la materia, con il contrasto della purezza del bianco contrapposto al nero,  con la bellezza della carta sulla quale, a volte più a volte meno, sono intervenuta. A ben guardare, tuttavia, la carta spesso non è semplicemente bianca o nera.

P.B.- In qualche modo, quindi, prevale la curiosità di vedere “cosa c’è dietro”;  cosa è nascosto….

M.S.- …. ed anche l’indicazione a seguire un certo percorso di indagine, che conduce un po’ alla volta allo svelamento, come è nel mio carattere.  Mi riconosco in un soggetto che non si palesa interamente subito.

P.B.- E’ anche, in fondo, una poetica dell’intercapedine, della fessura attraverso la quale guardare, come si diceva, quanto si nasconde dietro; che, forse, è tanto e molto di più di quanto non si veda nell’evidenza della frontalità.

 

 

Milano, 15 giugno 2016