C. Spadoni – Turbolenze - 2014
Cara Mirella,
permettimi di riprendere una consuetudine ormai antica - risale a padri nobili e forse un poco (o forse troppo) dimenticati dalla critica d'arte d'oggigiorno- del ricorso alla lettera, per condensare in poco spazio qualche riflessione sul lavoro di un artista. E venendo al tuo, mi viene spontaneo pensare ai tempi primi, sui quali Luciano Caramel, uno dei tuoi più attenti esegeti, scriveva che all'insegna del magistero di Luigi Veronesi, a Brera, “il lavoro di Mirella degli anni Settanta si svolge entro l'applicazione concreta del dipingere, con privilegiata attenzione per il colore e con intenzioni lirico-espressive, oltre che di ricerca.” E aggiungeva che “polo supremo di riferimento era Kandinsky”.
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti da quei famosi (o famigerati, a piacere) Anniottanta, di un' effervescenza non priva di equivoci, ma che aveva risollevato la pratica artistica dalla cappa di piombo dei veti concettuali. Nel tuo caso, i diversi momenti operativi hanno scandito le fasi di una sempre più precisa definizione di una ricerca di identità nel segno non solo della pittura ma anche, e soprattutto, della scultura. Un passaggio di non poco conto, ma che a ben vedere poteva già risultare implicito, sulla metà degli anni '80, in certi lavori in legno e soprattutto in terracotta policroma, le cui matrici, consapevoli o meno, vanno individuate in una linea decisamente italiana della plastica novecentesca.
Non appaia dunque fuorviante ripensare alle considerazioni di Caramel a distanza di poco meno di un trentennio, quando una ormai lunga e consolidata storia del tuo percorso potrebbe suggerire riferimenti a tutt'altre vicende, nelle sue più sobrie e dupurate soluzioni plastiche. Diciamo pure a quella linea, se così la vogliamo genericamente chiamare, che nel clima postinformale, dalla fine degli anni '50 al decennio successivo, si è sviluppata pur con esiti diversissimi all'insegna di un lavoro sulle superfici, anzi su superfici plastiche. Se poi si riprendono alcuni passi di un testo del 1989 scritto per te da Elena Pontiggia, vi si ritrovano utili indicazioni per meglio intendere il tuo lavoro là dove parla di un “ pacato contrapporsi tra forme arcuate e taglienti, assolutamente precise nella loro collocazione spaziale, e una singolare velatura che si svolge sulla superficie, con effetti insieme dinamici e sfuggenti”. Parole che potrebbero valere, per buona parte, per certe opere d'oggi. S'intende che il ricorso alla struttura metallica, che ha per così dire raffreddato ogni eccesso di esuberanza cromatica quasi neobarocca avvertibile nelle sculture dipinte di metà anni Ottanta, ha di fatto spostato decisamente i termini della questione, o per meglio dire dei motivi fondanti della tua ricerca. Che sono da indovinare “nelle pieghe dei solidi”, per citare Serena Simoni, o in altri termini in un pensiero dell'opera plastica che dopo le radicali riduzioni minimaliste e la cancellazione d'ogni componente sensibilistica, mira a ridefinire identità e qualità della scultura.
A voler ancora spigolare fra le voci bibliografiche più recenti si trova che Walter Guadagnini insiste sul rapporto con lo spazio; Alberto Veca che parla di “ingombro del volume e tempo di lettura”; Mario Raciti che scrive di “geometrie inquiete”. Per ricordare solo pochi. Ma si comprende bene, anche da queste parzialissime indicazioni come il tuo lavoro abbia sempre più guadagnato una precisa specificità di accenti, un'identità inconfondibile nel particolare ricorso ad un'essenzialità plastica al tempo stesso arricchita di una sorta di 'grafia' che sensibilizza le superfici dell'alluminio attraverso l'uso della fresa, della carta abrasiva, della spazzola d'acciaio.
Figure di una “geometria inquieta” che interagisce con lo spazio, che anzi determina diversamente una porzione di spazio in una interazione fra tridimensionalità e superficie. Si pensi a Evasioni, scale sghembe e impraticabili, come quella del villino della Quadriennale a Roma, dove l'andamento dei piani e dei vuoti geometrici esprime una tensione spaziale esaltata dagli effetti di luce dati dall' alluminio trattato, e come percorso da una scrittura appena percettibile a distanza. Fino ai recentissimi Respiri, un trittico plastico dalle forme avvolgenti, ulteriore sviluppo di Into the wave, versione spazialmente più complessa dei motivi 'marini' degli anni 2011-12.
E in questi lavori recenti la struttura assume una forma cilindrica, sormontata da una sorta di imbuti come raccoglitori di voci, suoni, pensieri, e quant'altro di aereo e inafferrabile possa costituire un 'contenuto' emotivo. Così da stabilire corrispondenze segrete tra l'interno e la superficie delle lastre d'alluminio, raccolte insieme da cinghie e resa quasi vibratile dal trattamento del metallo. Quasi fosse il flusso continuo di una misteriosa scrittura. Qualcosa di analogo è riproposto nella sequenza delle carte, dove le tracce dell'inchiostro e gli intagli sulla pergamena acquistano ancor più un carattere di 'pittura segnica', di una Brezza lieve che sfiora il foglio. Ancora, se si vuole, un riallacciarsi di motivi insieme plastici e pittorici nel maturo approdo di una via intrapresa, come s'accennava, nella tua prima stagione.
Claudio Spadoni